29.7.08

Da icona a scatolone: il Villaggio olimpico

Torino 2006_Roberto Beccantini
L'inaugurazione di un villaggio olimpico è una festa senza eguali. Antonella ha avuto la fortuna di viverla in prima persona, io purtroppo, ero ancora in viaggio pronto a sbarcare nella città olimpica; nella fattispecie Torino 2006. A Torino sentendo chi vi partecipò fu una fucina di emozioni, figurarsi "la prima" di un Villaggio olimpico nell' Olimpiade estiva. A Pechino più fattori si condensano tra di loro: Olimpiade quindi sport, politica, "trade" e inquinamento. Il bello ed il brutto anche se, raccontando i Giochi, si vorrebbe sempre parlare soltanto del fascino Olimpico. In tal caso più di altre volte resta maggiormente difficile, ma ciò non toglie la grande festa in cui la città di Pechino è spettatrice e, soprattutto, artefice. L'Olimpiade cinese nel bene e nel male è e sarà tutto questo. A sintetizzarla, a ricordare il Villaggio olimpico tra presente e passato uno splendido articolo di Roberto Beccantini. Buona lettura.
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In principio sì, era un villaggio. Oggi è molto di più, uno scatolone di mondo, come quello che la Cina ha inaugurato ieri, a Pechino, per annunciare a tutti che ormai ci siamo, e l’8 agosto, finalmente, si comincia. Sorge nel cuore del cuore dei Giochi, non lontano dal Nido d’uccello, lo stadio per l’atletica, e il Cubo d’Acqua, l’impianto del nuoto. Ospiterà 16.800 fra atleti e dirigenti; l’apertura ha sempre l’aria solenne di un varo, solo che il bastimento non si muove, resterà lì, immobile, a vader passare il mare della vita e dello sport. Sono stati i campioni cinesi Yao Ming (basket) e Liu Xiang (110 ostacoli) a battezzarne gli umori e i sapori, nessuno in smoking ma tutti in smog, data la foschia che gravava sulla cerimonia, roba appiccicosa e infìda, argomento che ha scatenato dibattiti e promosso crociate, ma si sa come vanno a finire queste cose: esattamente come cominciano. Un gran ballo in mascherina.Il villaggio olimpico non è più una cartolina dall’Olimpiade come una volta, quando appese alle porte non c’erano nemmeno le guardie; o se c’erano, facevano cucu. Uno dei primi risale a Londra 1908, i Paesi in lizza erano ventitré e gli atleti, duemila: numeri da albergo, per noi condomini del terzo millennio. Ad Amsterdam, gli organizzatori non si preoccuparono di costruirlo e così italiani e statunitensi alloggiarono sulla nave che li aveva condotti in Olanda. Altra musica, nel 1932 a Los Angeles. Sono i Giochi di Luigi Beccali, medaglia d’oro nei 1500 metri. A mano a mano che la tecnologia scarta e ingoia il romanticume decoubertiniano, ecco il tocco da Hollywood di un villaggio maliziosamente abbinato allo spazio e al tempo, oltre cinquecento villette in stile coloniale spagnolo sui pendii di Baldwin Hills.Adesso, entri e trovi poli-chiese, poli-ristoranti, palestre spaziali e sale giochi non meno sofisticate della cabina di controllo a Houston. E se c’è un problema, basta pigiare il mouse: Internet, e così sia. Allora, era come andare sulla luna e fare picnic tutti insieme, i protagonisti e i guardoni. Per gli americani, l’Olimpiade più bella è stata quella di Roma. La guerra aveva lasciato macerie e divisioni, l’Italia si era messa a correre verso il boom. Vinse, come ha ricordato Giampiero Boniperti, lo spirito di solidarietà. Poveri, ma belli. Il «presepe» sorse nel quartiere Flaminio. I villaggi sono palestre e talami, e già all’epoca favorivano la libera circolazione delle idee, oltre che dei baci. Nulla puzzava di filo spinato o di metal detector; c’erano confini, non dogane. Livio Berruti e Wilma Rudolph non potevano giocare ai fidanzatini di Peynet se non dentro quell’aura magica, lieve ed elegante come la loro falcata.Bei tempi. Bellissimi. Purtroppo, altri tempi. La cesura fra com’era (il villaggio) e cosa sarebbe diventato, la soffrimmo, tutti, a Monaco di Baviera. Sulla carta, e non solo, la Germania Ovest li aveva fortemente voluti, i Giochi, per lucidare l’immagine. Patti chiari e ordine, tassativo, di chiudere un occhio di fronte a quegli atleti che di notte, dopo un po’ di birre o un po’ di sesso, scavalcavano la rete di recinzione pur di scansare i canonici check-point. I volontari addetti alla sorveglianza erano equipaggiati solo con una radio ricetrasmittente. Sino alle 4,30 del mattino del 5 settembre 1972. L’irruzione del commando di fedayn di «Settembre Nero»; obiettivo, la palazzina d’Israele, al numero 31 di Connollystrasse. Scoppia l’apocalisse. Fra l’assedio, l’inseguimento all’aeroporto, le trattative e l’epilogo, sanguinoso, i morti ammazzati saranno in tutto diciassette: undici israeliani (due dei quali al villaggio), cinque terroristi e un agente di polizia. Punto e a capo. Da quel giorno, e da quel bilancio, il villaggio è diventato un’altra cosa, un altro mondo. Un «atletificio» sempre più di lusso ma sempre più isolato. Accessibile se non al prezzo di spogliarelli elettronici e code barbare. La memoria corre un po’ qui e un po’ là, alle caste dolcezze fra Emil Zatopek e la sua Dana cacciatrice (giavellotto), conosciuta a Helsinki 1952, e alle conferenze improvvisate a ridosso di una delle finestre-oblò che, generose, gonfiavano i fogli dei taccuini. I gavettoni, beati loro, non moriranno mai. E così le gaffe, gli scherzi, la promiscuità della meglio gioventù. Le polemiche, anche. La più classica coinvolgeva i nostri calciatori, troppo snob per accettare la caotica anarchia di quel formicaio. C’è chi ricorda, con emozione, i corvi e le biciclette di Tokyo e chi, con realismo, gli arresti domiciliari ai quali da Barcellona 1992 si è sottoposto di sua spontanea volontà il Dream Team del basket Usa, purché il carcere fosse il più lussuoso hotel della città. In albergo andrà anche Roger Federer. Non si vive di solo cemento armato. Di solito, al villaggio si ritira il presidente del Cio, Jacques Rogge. Basterà girare attorno a uno dei quarantadue blocchi per finire sotto controllo se non, addirittura, sotto tiro. L’aria dei villaggi d’antan, lo smog di Pechino. A modo suo, una parabola e una metafora. L’abito non farà il monaco, ma Monaco ha di sicuro e per sempre sfatto un rapporto che era, soprattutto, d’amicizia, fra noi e loro, e di complicità fra noi e «lui».

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