La fiamma olimpica che per oltre due settimane ha illuminato la baia di Vancouver si spegne. L'ultimo barbaglio di luce sulle acque e nei cieli del Canada chiude ufficialmente i Giochi. Vancouver saluta il mondo, la cerimonia conclusiva al Bc Place è allegra e triste come da tradizione. I volontari in giro per la città - sono tantissimi e ormai stravolti - regalano ad atleti, dirigenti, spettatori e giornalisti un ultimo, malinconico sorriso. Gli autisti dei bus olimpici concludono le loro corse. Gli atleti ficcano medaglie e delusioni nei bagagli, chiudono le stanze al Villaggio Olimpico; gli altri, quelli che devono fare ritorno a casa, infilano vestiti, souvenir e qualche buon ricordo dentro valigie e scatoloni che si chiudono a fatica. Le Olimpiadi d'inverno, edizione numero XXI, finiscono qua, tra canti, balli e sfilate.IL RICORDO - Difficile riassumere sedici giorni di gare, scegliere le storie più significative tra quelle dei 2621 atleti, abbracciare con un unico sguardo le bandiere degli 82 Paesi rappresentati: i numeri dicono che è stata un'edizione da record. Ma i numeri non raccontano tutto. John Furlong, il presidente del Comitato organizzatore, ha voluto descrivere questi Giochi in due parole: Canada e Kumaritashvili. Il primo ricordo non può che essere per lui, il giovane atleta georgiano morto di sport su una pista maledetta mentre rincorreva un sogno a cinque cerchi. «I Giochi si sono aperti nel dolore - ricorda il numero uno del Cio, Jacques Rogge - ma non sarebbe giusto non riconoscere al Comitato organizzatore i suoi meriti. Vi è stata una partecipazione straordinaria della città, qualcosa che personalmente non avevo mai visto». Questa città accogliente e garbata, che forse non è la migliore del mondo come dicono alcune classifiche, ma che in queste due settimane e mezzo ha offerto quanto di meglio è in grado di fare. Con quel pizzico di follia che non guasta e che da queste parti - ci raccontano - rappresenta una piacevole novità: le feste chiassose e ininterrotte tra Granville e Yaletown, la musica a palla, i cori "Go Canada Go" scanditi da mattina a sera, l'alcol a fiumi, la sicurezza garantita senza troppe paranoie, le file interminabili per una foto davanti al braciere olimpico, la ressa nei negozi per acquistare una maglietta con la foglia d'acero, le gustose ma pesanti "Cinnamon buns" e il cappuccino bollente nei bicchieri di cartone. «Abbiamo assistito a un patriottismo diffuso e spontaneo senza precedenti - dice Furlong - che per un canadese significa in primo luogo integrazione e accoglienza». Vero, verissimo. Anche se - va detto - non sempre le cose sono filate per il verso giusto: il meteo pazzo della vigilia (ma per quello non c'era molto da fare), gli incidenti con i black bloc, i feriti sotto le transenne al parco, il ghiaccio che si squagliava sulle piste e qualche starter che si dimenticava di dare il via agli atleti. Alla fine, in ogni caso, Vancouver ha saputo farsi apprezzare.

Marit Bjoergen

Giuliano Razzoli con la medaglia d'oro


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