1.3.10

Arrivederci a Sochi 2014

La fiamma olimpica che per oltre due settimane ha illuminato la baia di Vancouver si spegne. L'ultimo barbaglio di luce sulle acque e nei cieli del Canada chiude ufficialmente i Giochi. Vancouver saluta il mondo, la cerimonia conclusiva al Bc Place è allegra e triste come da tradizione. I volontari in giro per la città - sono tantissimi e ormai stravolti - regalano ad atleti, dirigenti, spettatori e giornalisti un ultimo, malinconico sorriso. Gli autisti dei bus olimpici concludono le loro corse. Gli atleti ficcano medaglie e delusioni nei bagagli, chiudono le stanze al Villaggio Olimpico; gli altri, quelli che devono fare ritorno a casa, infilano vestiti, souvenir e qualche buon ricordo dentro valigie e scatoloni che si chiudono a fatica. Le Olimpiadi d'inverno, edizione numero XXI, finiscono qua, tra canti, balli e sfilate.

IL RICORDO - Difficile riassumere sedici giorni di gare, scegliere le storie più significative tra quelle dei 2621 atleti, abbracciare con un unico sguardo le bandiere degli 82 Paesi rappresentati: i numeri dicono che è stata un'edizione da record. Ma i numeri non raccontano tutto. John Furlong, il presidente del Comitato organizzatore, ha voluto descrivere questi Giochi in due parole: Canada e Kumaritashvili. Il primo ricordo non può che essere per lui, il giovane atleta georgiano morto di sport su una pista maledetta mentre rincorreva un sogno a cinque cerchi. «I Giochi si sono aperti nel dolore - ricorda il numero uno del Cio, Jacques Rogge - ma non sarebbe giusto non riconoscere al Comitato organizzatore i suoi meriti. Vi è stata una partecipazione straordinaria della città, qualcosa che personalmente non avevo mai visto». Questa città accogliente e garbata, che forse non è la migliore del mondo come dicono alcune classifiche, ma che in queste due settimane e mezzo ha offerto quanto di meglio è in grado di fare. Con quel pizzico di follia che non guasta e che da queste parti - ci raccontano - rappresenta una piacevole novità: le feste chiassose e ininterrotte tra Granville e Yaletown, la musica a palla, i cori "Go Canada Go" scanditi da mattina a sera, l'alcol a fiumi, la sicurezza garantita senza troppe paranoie, le file interminabili per una foto davanti al braciere olimpico, la ressa nei negozi per acquistare una maglietta con la foglia d'acero, le gustose ma pesanti "Cinnamon buns" e il cappuccino bollente nei bicchieri di cartone. «Abbiamo assistito a un patriottismo diffuso e spontaneo senza precedenti - dice Furlong - che per un canadese significa in primo luogo integrazione e accoglienza». Vero, verissimo. Anche se - va detto - non sempre le cose sono filate per il verso giusto: il meteo pazzo della vigilia (ma per quello non c'era molto da fare), gli incidenti con i black bloc, i feriti sotto le transenne al parco, il ghiaccio che si squagliava sulle piste e qualche starter che si dimenticava di dare il via agli atleti. Alla fine, in ogni caso, Vancouver ha saputo farsi apprezzare.

Marit Bjoergen

I MIGLIORI - La faccia da copertina per l'album dei ricordi? Forse quella di Marit Bjoergen, la norvegese del fondo capace di salire sul podio in tutte le gare. È lei la vera Cannibale dei Giochi: oro nella sprint, nella 15 km pursuit e nella staffetta 4x5 km, argento nella 30 km (battuta dalla nemica Kowalczyk, che aveva lanciato contro di lei velenose accuse di doping) e bronzo nella 10 km. Al secondo posto, nel ranking finale stilato per gli amanti delle statistiche, c'è la cinese Wang Meng: tre ori nello short track. La regina dello sci alpino è Maria Riesch, nessun dubbio: la tedesca, oro in supercombinata e oro in slalom, ha fatto meglio dell'amica Lindsey Vonn. L'americana, che con quel viso da modella sarebbe stata perfetta con la corona dei Giochi in testa, si è dovuta accontentare - si fa per dire - di un oro in discesa e di un bronzo in Super G. Tra gli uomini, il norvegese Aksel Lund Svindal porta a casa tre medaglie (oro in Super G, argento in discesa, bronzo in gigante) proprio come lo statunitense Bode Miller (oro in supercombinata, argento in Super G e bronzo in discesa). Nel fondo, Petter Northug conclude alla grande un'Olimpiade iniziata con qualche sofferenza di troppo: il norvegese conquista quattro medaglie (oro nella sprint a squadre, argento nella 4x10 km a squadre, bronzo nella sprint individuale e oro nella 50 km conclusiva). L'angelo svizzero Simon Ammann, come previsto, arraffa due ori volando dal trampolino. Nel pattinaggio di figura, l'incantevole sudcoreana Yu-Na Kim inaugura la nuova era dei ghiacci con un record stratosferico. Applausi per lei, e lacrime per Joannie Rochette, la canadese che vince il bronzo dopo la morte della madre. La vittoria più contestata: quello dell'americano Evan Lysacek, riuscito comunque nell'impresa di spodestare lo Zar Evgeni Plushenko. La vendetta più dolce: quella di Yao Bin, tecnico cinese che dopo gli sberleffi subiti vent'anni fa per le sue disastrose performance sui pattini si è preso la soddisfazione di portare sul gradino più alto del podio la coppia di coniugi Shen Xue-Zhao Hongbo. Un oro storico, per il loro Paese, così come quello conquistato dai nuovi pupilli canadesi Tessa Virtue e Scott Moir nella danza su ghiaccio.

Giuliano Razzoli con la medaglia d'oro

BILANCIO ITALIANO - E poi ci sono gli italiani. Poche storie: cinque medaglie da ricordare non sono un bottino esaltante. Nell'ordine: l'argento di Piller Cottrer nella 15 km, i bronzi di Armin Zoeggeler nello slittino, Arianna Fontana nello short track e Alessandro Pittin nella combinata nordica. Poi, ovviamente e per fortuna, il trionfale oro in slalom di Giuliano Razzoli, arrivato quando in pochi ci speravano ancora. Il campione emiliano è stato scelto come portabandiera azzurro per la sfilata conclusiva degli atleti. Diciamo la verità: il "Razzo" degli Appennini è arrivato giusto in tempo per farci salutare Vancouver con un sorriso. Altrimenti, sai che tristezza. (Antonucci - corriere.it)

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